Ordine Equestre del  Santo Sepolcro di Gerusalemme

 

LUOGOTENENZA PER L'ITALIA MERIDIONALE TIRRENICA


  CULTURA E SPIRITUALITA' :  Acquisizione e donazione alla Custodia di Terra Santa  del nucleo principale del Getsemani: i Fratelli Brancovich, Cavalieri del Santo Sepolcro, di Giovanni Battista Rossi

prima pagina  

 

  

ACQUISIZIONE E DONAZIONE ALLA CUSTODIA DI TERRA SANTA

DEL NUCLEO PRINCIPALE DEL GETSEMANI :

I  FRATELLI BRANCOVICH, CAVALIERI DEL SANTO SEPOLCRO


Breve riflessione storica di Giovanni Battista Rossi,

Luogotenente per l’Italia Meridionale Tirrenica,

Settimana Santa 2021



 

Il primo incontro, per chi visita a Gerusalemme la Basilica delle Nazioni e il giardino del Getsemani, è con quel fazzoletto di terra, adiacente la chiesa novecentesca del Barluzzi, nel quale si ammirano otto ulivi venerandi di contorta  bellezza. La proprietà francescana sull’area si estende anche ad altri settori; il primo è costituito  dalla grotta detta “dell’Arresto”, il cui ingresso è adiacente alla chiesa ove è venerato il Sepolcro vuoto della Vergine. Questa grotta conserva tracce dell’antica destinazione a frantoio che giustifica il nome di tutto il complesso: il significato del nome Getsemani è appunto di orto del frantoio. Sopra la grotta e fino alla strada del Monte degli Ulivi, alla man destra per chi scende, si estende un’altra porzione di uliveto, visibile dalla strada attraverso un cancello, di solito chiuso. Vi è poi l’ampio romitaggio del Getsemani, con spazi di ospitalità e preghiera, alle spalle della chiesa e verso la salita del monte. Infine una porzione di giardino è situata oltre la strada antistante la basilica, nella valle del Cedron, e sarà accessibile a breve attraverso un tunnel che sottopassa la carrozzabile. Lo scavo di esso ha fatto scoprire i resti di un complesso bizantino, che era formato da una chiesa e da alcuni annessi, per monaci o pellegrini, oltre a un bagno rituale ebraico, che si ipotizza collegabile a una attività agricola che produceva olio “puro”, atto ad esempio all’impiego nel Tempio.

Le acquisizioni di tutti questi terreni da parte della Custodia di Terra Santa sono state progressive, a partire dal novembre del 1661, fino agli inizi del ‘900. La prima porzione, quella del 1661, fu venduta da contadini di Siloe, corrispondente grosso modo all’odierno villaggio arabo di Silwan, che sorge a sud del Getsemani ed è contiguo agli scavi della “Città di Davide”; un'altra particella si aggiunse l’anno seguente. L’acquisizione più recente fu quella di un terreno ceduto dagli Armeni nel 1905.

La porzione più importante, per le memorie che contiene, è quella oggetto di un contratto del 2 maggio 1681: in essa sono stati rinvenuti i resti della Basilica dell’epoca di Teodosio (IV secolo) e sorgono quella attuale e gli otto antichissimi ulivi. Le testimonianze archeologiche, comprese quelle recentemente scoperte nell’area verso la valle, e i resoconti dei primi pellegrini, oltre a scritti di Eusebio di Cesarea della fine del III secolo, identificano questo luogo, per tradizione ininterrotta, come quello dell’Agonia di Gesù.

 



Mi è sembrato opportuno riassumere per i membri del nostro Ordine la storia dell’acquisto del 1681, effettuato da tre fratelli croati di Sarajevo: Paolo, Antonio e Giacomo, figli di Agostino Brancovich, investiti proprio in quell’occasione Cavalieri del Santo Sepolcro.  Sulla vicenda dell’acquisizione Munir Mujich ha pubblicato nel 2019 un esaustivo articolo sulla rivista “Unity and Dialogue” (64, 61-86) che analizza approfonditamente il documento di vendita e il contesto in cui avvenne. Notizie ulteriori sono ricavabili da articoli apparsi su numeri non recenti delle riviste della Custodia di Terra Santa. Inoltre Il “Giardino Serafico” di Pietro Antonio da Venezia, libro storico sui Frati minori, stampato nel 1710, cita l’acquisto e l’avvenuta investitura cavalleresca, annotata anche nel Registrum Equitum SS.mi Sepulchri D.N.J.C. conservato nell’archivio della Custodia a Gerusalemme. Sono queste le principali fonti disponibili.

La storia dei Brancovich è particolare: appartenevano a una famiglia facoltosa e di probabile origine mercantile. Il cognome originario era a quanto pare Brajkovich, ma a un certo punto essi cominciarono ad adoperare quello di Brancovich, per avallare una discendenza nobiliare dalla casata di tal nome, alla quale appartenne nel XV secolo Giorgio, despota di Serbia. Va detto che, per contro, nei rapporti con le autorità turche, i tre preferivano il patronimico Augustinovich piuttosto che qualificarsi con il proprio casato che, proprio per la somiglianza con quello dei despoti cristiani Brancovich era in questo caso controproducente. Come Brajkovich i tre fratelli sono identificati da fra Mihajlo Radnich, provinciale francescano di Bosna Argentina (Argentina è nome latino di Srebrenica, città presso la quale era la principale miniera di metalli preziosi della regione). La provincia francescana, all’epoca dei tre fratelli, era l’unica entità cattolica tollerata in quella zona dell’impero ottomano.

Nel 1688 l’imperatore d’Austria concesse ai tre fratelli il sospirato riconoscimento dell’asserita discendenza dagli antichi governanti, con il titolo comitale. Si era nel pieno della grande guerra austro-turca e Vienna aveva conferito pochi anni il titolo di barone e poi quello di conte a Giorgio Brancovich, esponente di una diversa famiglia che portava effettivamente tale cognome, il quale condivideva dell’antico despota, dal quale anch’egli asseriva la discendenza, perfino il nome di battesimo. Su di lui si contava come possibile guida di una componente balcanica nella lotta ai turchi; tradita la fiducia imperiale per ambizioni autonomistiche personali, Giorgio finì la sua vita agli arresti domiciliari. In questi frangenti la corte viennese accettò le aspirazioni di riconoscimento nobiliare dei tre figli di Agostino Brancovich, anche perché in tal modo li presentava come legittimi eredi dell’antica dinastia, al posto del falso pretendente Giorgio caduto in disgrazia. Ad ogni buon conto i nostri tre fratelli coronarono le proprie ambizioni, senza che avessero propensioni militari e senza che venisse loro chiesto un concreto impegno in tal senso.

Furono Paolo e Giacomo a recarsi pellegrini in Terra Santa. Non è dato sapere con certezza come sia nata l’idea generosa di donare ai frati della Custodia il prezioso terreno. Il rapporto con fra Mihajlo, che reggeva la provincia francescana in patria, non sarà stato estraneo alla vicenda, che presuppone una non breve preparazione.  L’Archivio della Custodia di Terra Santa conserva il volume detto “Navis Peregrinorum” che registra i pellegrini giunti a Gerusalemme dal 1561 al 1695. L’arrivo di Paolo e Giacomo Brancovich nella Città Santa è annotato alla data del 19 marzo 1681. Erano con loro Antonius Ivanovic e Nicolaus Milescich, loro servi, e il francescano Marcus Bobretich, predicatore, confessore e vicario nel monastero dello Spirito Santo a Fojnica, in Bosnia. Il viaggio era avvenuto in gran parte via terra.

La preparazione dell’acquisto del Getsemani richiese certamente trattative complesse; esse giunsero in porto con un atto di cessione del 2 maggio 1681. Il documento originale appartiene all’archivio della corte di Sharia di Gerusalemme. Questo tipo di corti islamiche mantiene, anche nell’Israele di oggi, compiti particolari: l’esempio di più immediata comprensione è il riconoscimento del matrimonio tra musulmani. Non esistendo un istituto statale del matrimonio esso è demandato in Israele alle autorità religiose delle confessioni di appartenenza. L’archivio della corte di Gerusalemme è stato già da tempo e progressivamente salvato su microfilm; questi ultimi sono conservati all’Università di Haifa, ad Abu Dis e in Giordania. Una copia dell’atto, munita di tre autentiche, è proprietà dell’archivio della Custodia di Terra Santa ed è datata all’anno 1099 dell’Egira (1688 secondo il calendario gregoriano).

Il suolo era nella disponibilità di alcune famiglie musulmane, ma legalmente apparteneva al Waqf (istituzione caritatevole islamica) della Madrasa (scuola coranica) al Salahiyyah, che aveva sede nell’ex chiesa crociata di Sant’Anna, che si vide cambiare destinazione dopo la conquista di Saladino, per poi ritornare chiesa nel 1865 a seguito del dono, avvenuto per il sostegno militare nella guerra di Crimea, da parte del sultano Abdul Megid alla Francia, che tuttora la possiede in regime di extraterritorialità.

Lo studio già citato di Mujich spiega come, essendo tecnicamente inalienabili i suoli di proprietà di un Waqf, la vendita riguardasse formalmente tutto ciò che vi era coltivato, nel caso particolare ulivi e fichi. Tali cessioni davano il diritto di disporre dei prodotti agricoli, piantare nuove colture e anche di edificare; era previsto il pagamento in ratei di una somma sulle rendite della messa a frutto della terra, ma in realtà si trattava di una quantità di danaro solitamente poco più che simbolica e, dopo i primi anni, questo censo cadeva nell’oblio:  in tal modo, si realizzavano delle alienazioni di fatto. Sembra che questo fosse un artifizio giuridico non raro. Secoli addietro, a titolo di esempio, un’area vicina al Getsemani era stata ceduta in questo modo agli Ebrei per essere utilizzata poi come cimitero, entrando a far parte dell’immenso sepolcreto della “valle di Giosafat”.

L’operazione di acquisto da parte dei Brancovich fu facilitata dal fatto che l’area, pur appartenendo a una pia fondazione musulmana non era classificata come parte di un luogo santo islamico e anche dalla qualificazione degli acquirenti come sudditi ottomani, essendo la loro città, Sarajevo, parte di quell’impero. I tre fratelli agirono attraverso un intermediario, Ali, figlio dello sheikh Yusuf al-Hazraji; questo procuratore era un dignitario designato con titoli evocanti grande e riconosciuta saggezza, devozione e nobiltà d’animo; egli fu firmatario dell’atto per delega personale e completa da parte di Paolo e Giacomo, materialmente presenti a Gerusalemme, i quali agivano anche in rappresentanza del fratello Antonio, rimasto nella patria bosniaca.

Cedevano i loro diritti nove esponenti della comunità musulmana, ai cui nomi si accompagnava il titolo onorifico di sheikh o quello rispettoso di sayyid, equivalente a “signore”; essi attestavano alla corte la volontà propria e quella di una ventina di congiunti aventi una qualche parte di diritto, vuoi per parentela, vuoi perché tutori di qualcun altro; tra essi si enumeravano mogli, cognati, suoceri e quant’altro. Di queste ulteriori persone, non partecipanti fisicamente alla stipula, si certificava per la maggioranza il consenso espresso davanti a una corte islamica e per taluno l’avvenuta “informativa”;.

Nella cessione erano specificamente menzionati la grotta (detta oggi dell’Arresto) e un “cumulo di pietre”,  probabilmente rovine. L’inserimento nell’atto era necessario per evitare equivoci sull’estensione dell’area, perché, come osservato dal Mujic nel suo lavoro storico, il regime di cessione era formalmente quello delle coltivazioni e del loro ricavato più che del terreno, come si è già detto; or bene la grotta e un mucchio di pietre non producevano frutta né ortaggi. I venditori si assunsero anche la responsabilità di una garanzia economica su eventuali reclami di altre persone; pare infatti che ci fossero ulteriori usufruttuari, aventi però diritto su porzioni minime e inutilizzabili, dalle quali nulla ricavavano, il che spiega perché non venissero chiamati a esprimere consenso né percepissero quote dalla cessione.

Venne pattuita per iscritto una somma equivalente a novanta “groschen” (il grosso era una moneta dell’area germanico-danubiana), sicuramente molto inferiore a quanto in realtà versato, in quanto anche allora si tendeva a dichiarare meno del vero, nell’intento di ridurre le spese dell’atto (!).

Verbalizzata l’avvenuta cessione e attestato che le prescrizioni della Sharia erano state rispettate, si diede comunicazione, da parte del procuratore arabo che rappresentava i fratelli croati, che essi donavano immediatamente l’intero e indiviso oggetto del loro acquisto ai Frati del Convento della Colonna (oggi di San Salvatore) e ai poveri che ad essi Frati chiedessero aiuto. Ciò con rinuncia a ogni proprio diritto e con intestazione del Waqf (così denominato, con il termine che indica le istituzioni caritatevoli islamiche, ancorché fosse passato a non musulmani) ai Francescani, attraverso i rappresentanti di questi ultimi, assistiti da interpreti. Il procedimento si concluse con l’ulteriore certificazione della validità dell’atto secondo la Sharia e sulla base della giurisprudenza consolidata, e si verbalizzò che si era risposto, superandola, a un’imprecisata obiezione. Quest’ultima affermazione è un artifizio abitualmente inserito in questi contratti, che serve a sancirne la non oppugnabilità.

Il 4 aprile 1681, un mese prima dell’acquisto del Getsemani, gli “Illustrissimi e Generosi Signori” Paolo e Giacomo, figli di Agostino Brancovich, da Sarajevo in Bosnia, avevano ricevuto nella Tomba Vuota, dal padre Custode, l’investitura a Cavalieri del Santo Sepolcro, rivestendone l’abito. Il 10 maggio seguente Antonio, che si trovava in patria, fu creato Cavaliere per procura, rappresentato dal fratello maggiore Paolo. Custode di Terra Santa era a quel tempo fra Pier Marino Sormani, sotto il cui mandato erano stati anche acquistati nel 1679, a Ein Karem, i luoghi tradizionali della Visitazione (con i sotterranei e il pozzo tuttora visibile) e della casa di Zaccaria, ove oggi sorge la chiesa di San Giovanni Battista.

Il 29 marzo 2014, a 333 anni da quanto abbiamo raccontato, il Cardinale Vinko Puljich, Arcivescovo Metropolita di Vrhbosna (Sarajevo) benedisse, nel corso di un pellegrinaggio a Gerusalemme, una lapide posta presso l’ingresso del sito, che ricorda in latino, croato e inglese il ruolo dei suoi compatrioti nella compravendita.

 


 

Il giardino donato dai fratelli Brancovich all'epoca dei fatti ricordati era piantato a ulivi e fichi. Nove ulivi in particolare si distinguevano per antichità, ed otto di essi sussistono tuttora. I loro tronchi ricordano quasi quelli di piante fossili ma sono ancora capaci di generare polloni e fruttificare; le olive prodotte potrebbero dare un olio fruttato di buona qualità, ma quello franto viene destinato all'uso liturgico. Le piante furono oggetto di un intervento di potatura nel 2015 volto a preservarle nel tempo, attuato da un maestro toscano del settore, che operò con emozione e delicatezza.

Una tradizione, tante volte raccontata dalle guide, si spingeva a ipotizzare che gli otto alberi fossero stati testimoni dell’Agonia di Gesù, cosa poco verosimile. Gli olivi sono piante molto longeve, certamente in grado di sfidare i secoli se le condizioni ambientali sono favorevoli, ma in questo caso avrebbero dovuto essere bimillenari; si aggiungano poi le vicende storiche caratterizzate da ripetute distruzioni dei luoghi. La scienza ha comunque mostrato che questa poetica credenza è infondata, ma al tempo stesso può avere paradossalmente qualche elemento di verità. Accenniamo dunque ai risultati dello studio condotto tra il 2009 e il 2012, eminentemente a fini conservativi, ad opera dell’Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree (IVALSA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Al contrario di quanto avviene in altre specie, nei tronchi di ulivo non si formano veri e propri anelli annuali di accrescimento che possano aiutarne la datazione esatta. Il metodo più affidabile per stabilirne l’età è quindi il dosaggio del radiocarbonio sulle parti più interne, che sono le più antiche. Nel nostro caso l’esistenza di ampie cavità centrali facilitava, da un lato, piccoli prelievi non invasivi delle porzioni esistenti più datate, ma comportava la mancanza proprio delle più vetuste parti centrali. Si è integrata questa mancanza valutando in quanti anni olivi vissuti nelle stesse condizioni raggiungessero il diametro della parte mancante e sommando questo periodo all’età al radiocarbonio. Oltre a esemplari ampiamente diffusi nella regione era disponibile a tal fine l’albero piantato nel Getsemani da Paolo VI nel 1965, di età certa. Il prelievo di campioni adeguati fu possibile per tre delle otto vecchie piante e Il test al carbonio 14 fu affidato a un laboratorio di Vienna. La datazione finale dell’origine degli alberi fu attorno al 1160, con oscillazioni di pochi decenni. All’epoca i crociati stavano ricostruendo la chiesa ed è ovvio che sistemassero anche il giardino. Vi fu però una sorpresa: il DNA dei tre esemplari testati era identico. Si trattava dunque di parti riprodotte spontaneamente o per talea dai polloni di un albero più antico e venerato che si volle perpetuare, con una tecnica attuata anche oggi in Palestina. Questo ulivo non più presente, ma ancora vivo nelle sue propaggini divenute alberi autonomi, potrebbe essere stato davvero spettatore muto dell’Agonia di Gesù. Il segreto resta custodito sotto terra, nel DNA di antichissime radici.












 

Fonte :  scritti e appunti di S.E. il Luogotenente Cav. di Gran Croce Prof. Dott. Giovanni Battista Rossi .

 

 

 

 

 

 


 

 

 

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