Ordine Equestre del  Santo Sepolcro di Gerusalemme

 

LUOGOTENENZA PER L'ITALIA MERIDIONALE TIRRENICA


  CULTURA E SPIRITUALITA' : Il Cavaliere del Santo Sepolcro di Gerusalemme redento, come tutti, dal sangue preziosissimo di Gesù Cristo , di Mons. Vincenzo Taiani

prima pagina  

 

 

IL CAVALIERE DEL SANTO SEPOLCRO DI GERUSALEMME

REDENTO, COME TUTTI,

DAL SANGUE PREZIOSISSIMO DI GESU' CRISTO

relazione del

Comm. Mons. Prof. Vincenzo Taiani

 

Cavaliere del Santo Sepolcro di Gerusalemme  ( Knight  of the Holy Sepulchre of Jerusalem  )

 

Luogotenenza Italia Meridionale Tirrenica

Sezione de' Principati

Delegazioni O.E.S.S.G. Cava de' Tirreni - Amalfi , Nocera - Sarno , Salerno

 

Incontro spirituale di preghiera, di ascolto della Parola e di meditazione

 

Cava de' Tirreni, Venerdi 20 Giugno 2008

 

presieduto dal Preside della Sezione de' Principati Cav. Gr. Croce Gen. Prof. Avv. Giovanni Napolitano,

e dal Delegato Gr. Uff. Dir.Gen. Giuseppe Raimondi di Cava de' Tirreni - Amalfi

 

 

 

relatore il Comm. Mons. Prof. Vincenzo Taiani

 

IL CAVALIERE DEL SANTO SEPOLCRO DI GERUSALEMME

REDENTO, COME TUTTI, DAL SANGUE PREZIOSISSIMO DI GESU' CRISTO

 

 

Il tema del presente incontro spirituale è: la REDENZIONE. Tema affascinante, ma soprattutto attuale, sempre attuale, come attuale è ogni uomo che viene sulla terra e svolge e consuma la sua vita sulla ribalta del teatro del mondo. Tutti i temi della fede cattolica sono importanti, ma il tema della redenzione, diversamente dagli altri, tocca il cuore dell’uomo, la sua fragilità, la sua negatività, la sua precarietà, la sua finitezza, la sua impotenza, il suo diurno desiderio di essere salvato, purificato dalle scorie del peccato, sganciato dalle redini e dalle reti della sua inclinazione al male, quella che comunemente si chiama concupiscenza, l’attrazione fatale verso il male. Il suo grido universale, concentrato sulla penna di Lucrezio, ‘bona video mala sequor’, si mescola con l’altro, desolato, apparentemente sconfortato, quasi disperato, di Paolo, in Rm 7,18-25 e sq.: ‘Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne, invece, la legge del peccato’.

 

 

A.    Analisi dell’esperienza del male, in tutte le sue forme e modalità, che l’uomo odierno avverte.

 

L’uomo, credente e non credente, cristiano e non cristiano, fa tutti i giorni esperienza del male. E, anzitutto, vive l’esperienza della sua radicale finitezza. Egli si sente stretto da ogni parte da limiti e barriere invalicabili, che gli fanno sentire quanto, nonostante le sue aspirazioni ed i suoi progetti, egli sia piccola cosa. Così è chiuso dalla barriera di tempo tra la nascita e la morte: potrà, certo, prolungare la vita, ma non potrà evitare la morte. L’ESISTENZA UMANA È FINITA, LIMITATA inesorabilmente da due date. Ma non c’è solo finitezza del tempo. L’uomo si scopre finito nel suo essere e nel suo agire: si scopre limitato nella sua intelligenza e nella sua libertà, nella sua capacità di amare e di sentire; limitato nella sua capacità di vedere dove è il bene e, soprattutto, di compierlo; limitato nelle sue forze fisiche. Egli assiste, impotente, al declinare inesorabile del suo spirito e del suo corpo, avviati verso la vecchiaia e la morte. La sua memoria comincia a soffrire di amnesie, la sua intelligenza non riesce più a connettere, come prima, le idee e la sua volontà diventa debole, stanca e priva di slancio.

Unito essenzialmente agli altri, l’UOMO ha esperienza di essere in se stesso profondamente ‘DIVISO’. Quando fa scendere il sipario sul mondo e rientra in se stesso avverte quel profondo dissidio tra volontà volente e volontà voluta, tra l’ideale agognato e la fattualità vissuta, denunciato con tanta forza da S. Paolo, da S. Agostino, da Lutero, da Pascal, da Giovanni Paolo II. Tratto dal nulla e destinato alla morte, l’uomo si sente continuamente minacciato nel suo proprio essere. Ma mentre in passato egli situava le cause della minaccia di annientamento in qualche potenza esterna, superiore alle sue forze [il FATO, il DEMONIO, la NATURA], oggi si accorge che i pericoli mortali, che minacciano la sua esistenza, sono stati prodotti dalle sue stesse mani: la bomba atomica, la bomba all’idrogeno, la bomba chimica (cfr. GS 10; RH 15).

Alla minaccia segue naturalmente la PAURA, anzi, poiché essa tocca l’essere stesso dell’uomo, l’ANGOSCIA. L’uomo ha paura che da un momento all’altro qualcuno dei meravigliosi meccanismi costruiti dal suo ingegno si sottragga al suo controllo e si ribelli contro di lui. Siccome, però, non sa né quando né dove né come ciò possa accadere e non riesce a localizzare con chiarezza il pericolo, allora si sente il cuore oppresso dall’angoscia.

Un’altra amara esperienza e sensazione, che l’UOMO vive nell’intimo del suo spirito, è di essere spesso, se non addirittura costantemente, OGGETTO DI MANIPOLAZIONE. (cfr. RH 15).  Oggi l’uomo paventa e rischia l’azione manipolatrice dell’ingegneria genetica.

L’uomo fa l’esperienza del MALE FISICO. La sua salute è continuamente insidiata dalla malattia. Il male fisico colpisce l’uomo singolo nel corpo, e colpisce le famiglie, i popoli, la società nel suo insieme, come la fame, il sottosviluppo, le carestie, i conflitti politici e sociali, le guerre: cambiano le forme storiche e tradizionali di male fisico, ma esso permane in tutta la sua drammaticità. Rispetto al passato l’uomo ha registrato progressi giganteschi: ha debellato molte malattie, ha creato le condizioni per lo sviluppo di altre non meno gravi, come il cancro, le malattie cardiovascolari, le malattie mentali, oggi in pauroso aumento; se ha alleggerito la fatica fisica, ha accresciuto la fatica mentale e psichica; se ha elevato la cultura e il tenore di vita, non ha reso la sua vita più serena e gioiosa, non ha cacciato dal suo animo la disperazione e l’angoscia, che, oggi, cresce a dismisura: si pensi alle orribili torture inflitte ai prigionieri politici, agli attentati terroristici, che si perpetrano in tutto il mondo, ai milioni di persone, che hanno sofferto pene spaventose nei campi di concentramento e di prigionia, alle sofferenze di milioni di profughi dai loro paesi per fame, per lavoro o per motivi politici, ai milioni di aborti - vera ‘strage degli innocenti dell’era moderna”! -, che avvengono ogni anno nel mondo.

A confronto delle sofferenze fisiche, ben più gravi e pesanti sono le SOFFERENZE SPIRITUALI e morali, a cui l’uomo va incontro nella vita: umiliazioni, apprensioni ed angosce per il futuro, ingratitudine da parte di coloro, a cui si è fatto del bene, abbandono e mancanza di affetto da parte di persone care, senso di vuoto e di inutilità della vita, caduta delle speranze più gelosamente coltivate. Quanti, partiti, nella corsa della vita, con grandi speranze ed ambizioni, sono delusi dai soprusi degli altri, dalle angherie dei prepotenti e degli ambiziosi, e finiscono calpestati! Quanti devono affrontare il cammino della vita senza che nessuno sia loro accanto, oppure, giunti alla vecchiaia, si trovano soli ed abbandonati. Quante ingiustizie subite innocentemente dalla cosiddetta giustizia umana!

Così, sono mali dello spirito il trionfo della menzogna sulla verità, dell’inganno sulla sincerità e sulla lealtà, la vittoria sfacciata del vizio sulla virtù calpestata e derisa, il trionfo dell’iniquità e dell’ingiustizia, l’oppressione dei poveri e lo sfruttamento dei deboli, il potere sovrano, che esercita il danaro, al quale tutti si vendono e con il quale tutto si compra, anche la coscienza, lo scadimento dei valori morali, il trionfo dell’irreligiosità e dell’ateismo.

Ma, oggi, l’uomo vive l’esperienza dell’instaurazione di un vero e proprio ‘regno del male’, cioè di un ‘potere organizzato della menzogna’, dell’immoralità e dell’irreligiosità. Non si tratta solo dell’esistenza dei mali dello spirito - menzogna, immoralità, irreligiosità...- ma di un ‘potere del male’, che, servendosi delle strutture politiche, sociali e culturali della società, e, soprattutto, del potere economico, riesce a far apparire verità ciò che è menzogna e falsità, e a far apparire menzogna e falsità quello che è vero e giusto; riesce a far apparire bene quello che è male, e male quello che è retto e benefico per l’uomo; riesce a far apparire Dio, la religione, la fede come realtà alienanti e nemiche dell’uomo e l’irreligiosità e l’ateismo come forze liberatrici dalla servitù, che Dio imporrebbe all’uomo. Questo potere domina gli uomini, li tiene in sua balia, ha su di loro una presa così capillare e profonda che difficilmente essi riescono a sottrarsi al suo influsso e a pensare ed agire secondo la verità, secondo la legge morale, secondo una visione religiosa della vita.

Infine l’uomo fa l’esperienza del PECCATO sotto le sue infinite forme. Un’esperienza, che, in un primo tempo, lo esalta e lo inebria, ma che poi, lo lascia amareggiato, umiliato e deluso, schiavo del suo peccato. Una profonda parola di Cristo getta sulla situazione del peccatore una luce sinistra: CHI FA IL PECCATO È SCHIAVO DEL PECCATO (Gv VIII,34). Il peccato è un tiranno duro ed esigente, che, quando più a lungo è servito, tanto più duramente impone il suo dominio: cosicché, anche volendo, non si riesce, soprattutto da soli e subito, a liberarsene, oppure, se talvolta si sfugge alla sua presa, presto si ricade ancora più pesantemente sotto la sua servitù. Il peccato sembra più forte dell’uomo!

 

 

B. – Analisi dell’esperienza, della visione e della situazione dell’uomo peccatore nell’A.T.

 

a. - IL PECCATO ORIGINALE È LA RADICE DI MOLTI MALI.

 

Il PECCATO ORIGINALE E’ CAUSA E FONTE DEL MALE.

E’ questa la considerazione accorata dell’A.T. Nel racconto del Diluvio, infatti, l’A.T. due volte fa osservare che il cuore degli uomini è rivolto continuamente al male, fin dalla fanciullezza (Gen VI,5; VIII,21). Secondo l’AT l’umanità fin dalle sue prime generazioni è travolta dal peccato (Gn IV,1-7; IV,15-24; VI,7). Il moltiplicarsi dei peccati è spiegato per la debolezza intrinseca degli uomini, sottolineata dalla Scrittura (Gn VI,5; VIII,21). I giusti diventano sempre più rari e Dio, per prepararsi un popolo fedele, deve strappare sempre più Abramo dalla sua parentela e dalla casa di suo padre (Gn XII,1 cfr Gdt V,6-9). Con questo fatto comincia una serie di interventi salvifici straordinari, necessari perché il popolo di Dio non si corrompa. Non bastano, però, le grandi gesta di Dio, né la legge, né i miracoli, né le dure punizioni. La predicazione dei profeti non cessa di constatare la durezza di cuore del popolo eletto, che con gli occhi non vede e con gli orecchi non ascolta (Is VI,5-10). Perché cambi questa situazione Dio stesso deve mutare il cuore dell’uomo con una circoncisione spirituale (Dt XXX,3-8; Ger IV,4), con l’effusione del suo spirito (Ger XXXI,31-33; Ez XI,19-20; XXXVI,25-27). Nei Salmi spesso si chiede a Dio l’aiuto per osservare la legge ed evitare il peccato (Sal LI,12; CXIX,10).  

 Israele, nel corso della sua storia, si chiede: SE DIO È BUONO E HA FATTO ‘BUONE’ TUTTE LE COSE, IVI COMPRESO L’UOMO, ALLORA COME SI È ARRIVATI ALLA ESPERIENZA DI COLPA, DI DOLORE, DI MORTE? Il suo agire è perfetto (Dt XXXII,4) e tutte le sue opere sono molto buone (Gn I,31). Come si può conciliare la miseria del mondo con tale bontà di Dio? Lo iahwista risponde: DIO NON HA CREATO L’UOMO COSÌ, COME EGLI È ADESSO; L’UOMO ORIGINARIO VIVEVA IN COMUNIONE CON DIO NEL POSSESSO DELLA VERA VITA. OGNI INFELICITÀ È CONSEGUENZA DELLA SUA PROPRIA COLPA. L’UMANITÀ È CADUTA IN QUESTA SITUAZIONE PERCHÈ ESSA, NEL SUO PROGENITORE, HA ABBANDONATO DIO. TUTTE LE PERTURBAZIONI DELLA VITA UMANA HANNO LA LORO RADICE NELLA PERTURBAZIONE DEL RAPPORTO CON DIO. Il messaggio di Gn III, là dove si parla del PO, è, dunque, quello derivante da un avvenimento storico, che spiega le ‘ragioni storiche’, che hanno determinato la presente condizione peccatrice e sofferente dell’uomo.

La sostanza del ‘messaggio religioso’, che il racconto del PO trasmette, è offerta da una chiara sintesi nella letteratura sapienziale: DIO CREÒ L’UOMO PER L’IMMORTALITÀ, E LO FECE AD IMMAGINE DELLA SUA NATURA; MA, PER L’INVIDIA DEL DIAVOLO ENTRÒ NEL MONDO LA MORTE, E NE FANNO L’ESPERIENZA QUELLI DEL SUO PARTITO (Sap II,23-24). La colpa dell’uomo, per l’invidia del diavolo, ha contrastato il piano dell’immortalità per l’uomo. È il peccato dell’uomo, che ha introdotto un cambiamento nei rapporti con Dio, Creatore dell’uomo: tale cambiamento non è dipeso da Dio, Creatore dell’uomo, né da condizioni fatalistiche o da forze anonime malefiche, ma dalla responsabilità dell’uomo, il quale, pertanto, deve riconoscersi colpevole e convertirsi a Dio.

Gn II,4b - III,24 appartiene alla tradizione del iahwista, che probabilmente era un membro dei circoli di sapienza, sorti presso la corte di Salomone, costituiti da consiglieri e precettori dei suoi figli. La problematica dell’agiografo, a riguardo del male, nasce da situazioni e persone concrete del tempo: e, cioè, Davide, Salomone, Roboamo, Geroboamo. Nessuno si è salvato dal male, neppure il fedelissimo Davide ed il sapientissimo Salomone! Come si spiega la presenza del peccato in uomini tanto grandi e benemeriti? Soprattutto, come si riesce a vincerlo in se stessi? Ecco la motivazione principale, non unica - [si ricordi il motivo della giustificazione della politica aperturistica del re Davide] - di questa meditazione sapienziale, la quale fa leva su altri due dati:

1.- al tempo del redattore, e nei suoi circoli, la ragione del presente era cercata nel passato più remoto, con procedimento eziologico - [o causale, che va dall’effetto alla causa, seguendo un movimento a ritroso],

2.- il male, che travaglia gli uomini più illustri di Israele e tutto il popolo, intacca anche gli altri popoli: perciò la sua radice deve essere comune e deve essere nata in un momento, che coinvolge l’intera umanità.

Forte di queste premesse, il Iahwista elabora una spiegazione, la quale, da una parte, desume i propri contenuti dalla applicazione rigorosa del procedimento eziologico, e, dall’altra, si allarga, a partire dalle contingenze storiche ebraiche dei secoli X e IX, all’umanità di sempre, concernendo l’adam [l’uomo] come tale, per manifestargli il rimedio supremo dei suoi mali. Data questa impostazione, il racconto riveste un carattere composito di indole assieme storica e simbolica [ossia tipologica, rappresentativa del mistero dell’uomo in quanto tale].

 L’insegnamento effettivo dello iahwista si condensa dunque nei punti seguenti:

1.- l’universalità della situazione di peccato del mondo si estende sino alle origini della umanità,

2.- la solidarietà nel male è inaugurata già dai primi uomini,

3.- la condizione attuale della vita non deriva da necessità di cose né da volere di Dio, bensì dalla colpa dell’uomo, più precisamente dalla sua pretesa di autonomia assoluta, nella quale si trova la vera essenza del peccato,

4.- tale condizione costituisce un’autentica tragedia,

5.- esiste, però, una speranza legata all’azione di recupero, che Iahwè attua attraverso Abramo e la sua discendenza.

 In concreto, l’agiografo, servendosi del linguaggio del tempo, si sforza di suscitare due sentimenti fondamentali: la nostalgia del mondo voluto da Dio, ossia della vita riuscita nella ‘benedizione’ divina, e la speranza del suo recupero. Per farlo, risale eziologicamente sino agli inizi della storia. Ed arriva ad alcune conclusioni storiche di indole religiosa, che sono capaci di illuminare il mistero dell’uomo di ogni tempo [valore tipologico]. In particolare alle tre seguenti:

1.- il mondo e l’uomo sono usciti dalle mani di Dio, contrassegnati da un’innocenza nativa, che è stata perduta per responsabilità dell’uomo e che deve essere ripresa,

2.- il peccato contamina l’uomo fin dalle origini dell’umanità e produce effetti contagiosi,

3.- non esiste possibilità di superamento del peccato se non nell’abbandono all’iniziativa salvifica di Dio visibilmente in atto nell’alleanza.

 

 

b. – Il MALE MORALE (il peccato) è inteso COME ESPERIENZA INEVITABILE. ESPERIENZA DELLA UNIVERSALITÀ DEL PECCATO

 

 L’universalità del peccato trova un vigoroso riscontro già nella tradizione storica dei racconti dell’Esodo, che denuncia la presa del male tanto sui nemici di Israele che sul popolo eletto medesimo.

Rispetto ai nemici di Israele, questa tradizione assume una posizione molto forte, soprattutto nella liberazione portentosa dalla schiavitù d’Egitto. Nel cuore indurito del faraone, negli idoli di Egitto, come pure nel mare, opera l’azione malefica del peccato universale. Nei nemici di Israele si fa luce la caparbia volontà di opporsi al disegno salvifico di Dio. Tutti quanti sono profondamente contagiati dal peccato.

La peccaminosità, tuttavia, non risparmia nemmeno Israele, popolo dalla dura cervice, che tenta il proprio Dio mormorando contro di Lui e si ripiega nostalgicamente sul ricordo dell’antica vita da schiavi, fabbricando divinità idolatriche di ogni specie e sostituendo alla fiducia in Iahwè una squallida pseudosicurezza stabilita su questi ‘elilim’ [nulla]. Ne consegue che l’alleanza divina deve faticosamente costituirsi mediante un paziente e misericordioso impegno di Iahwè dinanzi al peccato, da cui non sono esenti neppure i capi del popolo: per un oscuro momento di sfiducia, lo stesso Mosè non avrà la gioia di introdurre il popolo, purificato da quaranta anni di deserto, nella terra promessa.

Sullo sfondo di peccato, che contagia Israele, insiste la predicazione profetica, la quale denuncia implacabilmente le numerose infedeltà compiute dal popolo, ormai insediato nella terra promessa, e risale dalle singole infedeltà ad una situazione generale, intesa come loro malefica radice.

Prima dell’esilio, il ProtoIsaia constata la durezza di cuore del popolo eletto, che non vede con gli occhi, non ode con le orecchie, non comprende con il cuore (Is VI,10), e, perciò, merita di essere chiamato GENTE PECCATRICE, POPOLO CARICO DI INIQUITÀ, RAZZA DI SCELLERATI, FIGLI CORROTTI (Is I,4; cfr. Is XXX,9). Michea si lamenta amaramente perché L’UOMO PIO È SCOMPARSO DALLA TERRA, NON C’È PIÙ UN GIUSTO TRA GLI UOMINI; TUTTI STANNO IN AGGUATO PER SPARGERE SANGUE, OGNUNO DÀ LA CACCIA CON LA RETE AL FRATELLO (Mc VII,2; cfr. VII,3-6). Geremia riporta l’accusa di Iahwè: PERCHÈ VI LAMENTATE CON ME? TUTTI VOI MI SIETE STATI INFEDELI, ORACOLO DEL SIGNORE! (Gr II,29); lancia la sfida di Dio: PERCORRETE LE VIE DI GERUSALEMME, OSSERVATE BENE ED INFORMATEVI, CERCATE NELLE SUE PIAZZE SE TROVATE UN UOMO, UNO SOLO, CHE AGISCA GIUSTAMENTE E CERCHI DI MANTENERSI FEDELE, ED IO LO PERDONERÒ, DICE IL SIGNORE (Gr II,29); e mette a nudo una radice fondamentale della peccaminosità degli Ebrei parlando del loro cuore malato (Gr XVII,9), constatazione che vale anche per tutte le nazioni (Gr III,17; IX,25). Durante l’esilio, Ezechiele dà voce ad un duro giudizio di Iahwè su Israele, chiamandolo UN POPOLO DI RIBELLI, CHE SI SONO RIVOLTATI CONTRO DI ME (Ez II,3), UNA GENIA DI RIBELLI (Ez II,57; VI,3; III,9). Dopo l’esilio Isaia registra la confessione del vero israelita, che dichiara: SIAMO DIVENTATI TUTTI COME COSA IMPURA, E COME PANNO IMMONDO SONO TUTTI I NOSTRI ATTI DI GIUSTIZIA; TUTTI SIAMO AVVIZZITI COME FOGLIE, LE NOSTRE INIQUITÀ CI HANNO PORTATO VIA COME IL VENTO.

Nella preghiera di Israele [i Salmi], invece, e nella riflessione sapienziale, la peccaminosità è vista, soprattutto, come condizione dell’intera umanità. Questo, perché mentre diventa sempre più insignificante a livello politico, Israele scopre sempre più chiaramente la sua vera missione storica: esso è il popolo, in cui dimorano la Legge, la Parola, e la Sapienza di Dio; per questo le sue vicende sono un esempio paradigmatico per tutta l’umanità, dalle origini fino alla meta finale della storia. In forza di questo principio, se Israele e peccatore, tutti gli uomini debbono essere ritenuti malvagi.

Il Salmo XIV dichiara impietosamente che gli uomini SONO CORROTTI, FANNO COSE ABOMINEVOLI, NESSUNO PIÙ AGISCE BENE. IL SIGNORE DAL CIELO SI CHINA SUGLI UOMINI PER VEDERE SE ESISTA UN SAGGIO, SE C’È UNO CHE CERCHI DIO. TUTTI HANNO TRAVIATO, SONO TUTTI CORROTTI; PIÙ NESSUNO FA IL BENE, NEPPURE UNO (Sal XIV,1- 3; cfr. Sal LIII,2-4). Nello stesso ordine di idee il Salmo XII prende atto che NON C’È PIÙ UN UOMO FEDELE, È SCOMPARSA LA FEDELTÀ TRA I FIGLI DELL’UOMO. SI DICONO MENZOGNE L’UNO ALL’ALTRO, LABBRA BUGIARDE PARLANO CON CUORE DOPPIO (Sal XII,2- 3). Il male pare congenito all’uomo: SONO TRAVIATI GLI EMPI FIN DAL SENO MATERNO, SI PERVERTONO FIN DAL GREMBO GLI OPERATORI DI MENZOGNA (Sal LVIII,4); e più ancora: ECCO, NELLA COLPA SONO STATO GENERATO, NEL PECCATO MI HA CONCEPITO MIA MADRE (Sal LVII,7). La sofferenza è intesa come pena del peccato (Sal VI; LXXXVIII; CII): ebbene tutti soffrono, dunque tutti hanno peccato!

Per parte sua, la letteratura sapienziale inveisce contro la tendenza universale al male: O INCLINAZIONE MALVAGIA, DA DOVE SEI BALZATA PER RICOPRIRE LA TERRA CON LA TUA MALIZIA? (Sir XXXVII,3). A suo giudizio, tutti i figli di Adamo sono accomunati dal peccato: CHE COSA È L’UOMO PERCHÈ SI RITENGA PURO, PERCHÈ SI DICA GIUSTO UN NATO DI DONNA? (Gb XV,14; cfr. XXV,4); senza eccezioni: NON C’È, INFATTI, SULLA TERRA UN UOMO COSÌ GIUSTO, CHE FACCIA SOLO IL BENE E NON PECCHI (Qo VII,20; cfr. Prv XX,9; Gb IV,17).

Ed acquistano senso due testi di particolare rilevanza, che non si limitano ad asserire l’universalità del peccato, ne rintracciano la sua radice nel cuore malato dell’uomo e si ricollegano al peccato di Adamo ed Eva:

1.- il primo è Sir XXV,24, che dichiara: DALLA DONNA HA AVUTO INIZIO IL PECCATO, PER CAUSA SUA TUTTI MORIAMO;

2.- il secondo è Sap II,24, dove si legge che LA MORTE È ENTRATA NEL MONDO PER INVIDIA DEL DIAVOLO, E NE FANNO ESPERIENZA COLORO CHE GLI APPARTENGONO, ossia coloro che prendono partito per Satana.

 

 

c. - ESPERIENZA DELLA SOLIDARIETÀ NEL MALE DERIVANTE DAL PECCATO

 

Parallelamente alla attestazione del regno del peccato, l’AT elabora uno schema per spiegare la sua diffusione. Poggiandosi sulla convinzione della personalità corporativa, giustifica l’universalità del peccato affiancando al motivo del cuore malato quello della ‘reciprocità’. E, così, introduce il tema della solidarietà nel male, colta

1.- nel legame, che congiunge a vicenda generazioni diverse [dimensione diacronica],

2.- nel rapporto tra complici, o peccato collettivo [dimensione sincronica],

 La solidarietà nel male viene alla luce, anzitutto, nell’ambito delle generazioni, che si susseguono nel tempo; nel senso che il peccato dei padri è compreso in unità con quello dei figli. ABBIAMO PECCATO CONTRO IL SIGNORE, NOSTRO DIO, NOI E I NOSTRI PADRI, DALLA NOSTRA GIOVINEZZA SINO AD OGGI, si legge in Ger III,25. L’idea ritorna in XIV,20: RICONOSCIAMO, SIGNORE, LA NOSTRA INIQUITÀ, L’INIQUITÀ DEI NOSTRI PADRI: ABBIAMO PECCATO CONTRO DI TE (cfr. IX,13; XVI,11-12); come pure in Lam V,7: I NOSTRI PADRI PECCARONO E NON SONO PIÙ, NOI PORTIAMO LA PENA DELLA LORA INIQUITÀ (cfr. Ne IX,33-37; Dn IX,16; Sal LXXIX,8-9; CVI,6; Lv XXVI,39-40; Tb III,3). Frequentemente si ripete che l’iniquità è punita fino alla terza e alla quarta generazione (Es XX,5; XXXIV,7; Nm XIV,18; Dt V,9; Ger XXXII,18; Sir XLI,7), con un meccanismo, di cui i racconti storici forniscono numerosi saggi, riscontrabili, ad esempio, in quanto succede ai discendenti di Cam (Gn IX,25-27), ai partigiani di Core ed ai figli di Datan e Abiram (Nm XVI,31-35; XXVI,9-11), al figlio di Davide generato da Betsabea (2 Sam XII,14), ai figli di Salomone (1 Re XI,12), alla famiglia del re Achab (2 Re IX,7-10). In questi casi le radici del male sono individuate tanto nella malizia individuale, quanto nelle eredità malvagie dei predecessori.

La solidarietà nel male si attua, evidentemente, anche tra complici nel peccato [peccato collettivo]. La si coglie nell’orgoglio dell’umanità e nella divisione, che ne consegue, come sono descritti nel racconto della torre di Babele [tradizione iahwista] del capitolo XI della Gn; e nella idolatria generalizzata, prospettata da Sap XIV,11-21.

 

 

C. - Analisi dell’esperienza, della visione e della situazione dell’uomo peccatore nel N.T.

 

Secondo i Sinottici, tutti gli uomini sono spiritualmente malati (Mt IX,11-13; Mc II,16-17; Lc V,30-32); sono dei peccatori (Lc XI,13; Mt VII,11), bisognosi di conversione (Lc XIII,5) e soggetti al dominio di un ‘forte’ [il diavolo ], che Gesù sconfigge (Lc XI,20-22; Mt XII,28-29; Mc III,26-27). Come lascia intendere il suo nome [GESU” = ‘il Signore salva’: Mt I,21; Lc I,31], la missione di Gesù consiste nel salvare la moltitudine degli uomini (Mt XX,28; ; Mc X,45) strappandoli dal peccato e dalla morte eterna (Lc XIX,10), perché gli uomini sono pecore perdute (Lc XV,4-7; Mt XVIII,12-14), che Gesù deve ritrovare (Mt XV,24). Il fatto che Gesù sia mandato in soccorso di una umanità signoreggiata da satana ed immersa nel peccato è talmente rilevante da imporre al regno del Padre ed all’amore di Gesù la forma tragica della croce (MT XVII,12; Mc IX,12-13). Se la sorte di Gesù non può essere diversa da quella dei profeti e dei sapienti, che lo hanno preceduto, è perché gli uomini, simbolizzati da Gerusalemme e dai farisei, sono serpenti e razza di vipere (Mt XXIII,33-37; Lc XI,49-61; XIII,34). Dunque, dal momento che la salvezza realizzata da Gesù comporta la liberazione dal peccato e raggiunge assolutamente tutti, la peccaminosità deve dirsi rigorosamente universale.

GIOVANNI propone il medesimo insegnamento servendosi della categoria del mondo e del suo peccato. Per sé il mondo [kosmos, mundus] costituisce l’oggetto dell’amore di Dio e lo spazio benedetto della venuta di Gesù (Gv I,9-10; III,16-17). Ma la presenza di una peccaminosità universale, che comprende la somma dei peccati dell’umanità e raggiunge il suo culmine nell’assassinio di Gesù, ne rovescia il significato caricandolo di una accezione pesantemente negativa.

L’Autore dell’APOCALISSE rimanda a Gn II e III, contrapponendo la redenzione di Gesù alla caduta delle origini. Ma, per lui, la radice della colpa si trova nell’influsso di satana, IL GRANDE DRAGO, IL SERPENTE ANTICO, COLUI CHE CHIAMIAMO IL DIAVOLO E SATANA, E CHE SEDUCE TUTTA LA TERRA (Ap XII,9; cfr XX,2). Il diavolo lotta contro la ‘DONNA’, che è la CHIESA contrassegnata da tratti mariani (Ap XII) e tenta di soggiogare la sua discendenza servendosi delle potenze terrestri. EGLI È STATO OMICIDA FIN DALL’INIZIO (Gv VIII,44), vale a dire fin dall’aprirsi della storia, e tenta di rendere suo schiavo mediante il peccato chiunque lo segue (Gv VIII,34), sino ad imporsi come ‘PADRE’ [in alternativa ad Abramo] ai ‘giudei’ (Gv VIII,38-44). Il peccato, dunque, si trasmette come eredità malefica specialmente per opera di satana.

L’apporto più importante del NT al tema della peccaminosità nativa dell’uomo viene dall’EPISTOLARIO PAOLINO. Paolo organizza il proprio pensiero, soprattutto in Rm V,12-21 [che viene giustamente ritenuto il brano biblico più significativo per la dottrina del PO] attorno a tre temi portanti:

1.- l’universalità della peccaminosità umana;

2.- la molteplicità delle sue cause;

3.- la realtà del suo rapporto con l’’adam’ genesiaco.

L’asserzione dell’universalità del peccato del mondo non solo è presente anche nella letteratura paolina, ma essa risulta ancora più radicale che nel giudaismo del suo tempo, perché non ammette eccezioni di sorta. Essa pure, però, si muove unicamente nella prospettiva della colpa dell’adulto responsabile, senza considerare i bambini. Come avviene nei Sinottici, la sua motivazione è ricavata dalla universalità della redenzione operata da Gesù. Paolo non guarda alla salvezza arrecata da Gesù a partire dal peccato, ma guarda al peccato a partire dalla salvezza. La sua tesi è lineare: dal momento che nessuno può salvarsi se non in forza della fede in Gesù liberatore dal peccato, bisogna ammettere che tutti gli uomini sono peccatori.

Enuncia questa persuasione la parte introduttiva della Lettera ai Romani (Rm I,18-III,20), che prepara l’affermazione trionfante della salvezza universale in Gesù (Rm III,21 sg.) e si propone di dimostrare che la redenzione dell’uomo ha luogo non secondo l’idea farisaica della giustificazione ottenuta mediante le opere, bensì tramite la fede nel Signore. Coloro, che non hanno ancora ricevuto il dono dello Spirito, sono immersi in peccati di ogni genere: tutti:

1.- sia i pagani, che si rifiutano di glorificare Dio, si abbandonano alle passioni e si caricano di iniquità,

2.- sia gli ebrei, che posseggono la legge e si vantano di essere guida dei ciechi e luce nelle tenebre, ma, poi, commettono peccati come gli altri.

Tanto gli uni quanto gli altri sono peccatori. E lo erano, prima della conversione, precisano altri testi, i cristiani medesimi, un tempo INSENSATI, DISOBBEDIENTI, TRAVIATI, SCHIAVI DI OGNI SORTA DI PASSIONI E DI PIACERI (Tt III,3). Nessuno si sottrae al male, perché la forza necessaria per superarlo viene elargita solo dal dono dello Spirito (Col III,5-8; Tt III,1-7). Ma NEL NUMERO DI QUEI RIBELLI SIAMO VISSUTI ANCHE TUTTI NOI, UN TEMPO, CON I DESIDERI DELLA NOSTRA CARNE, SEGUENDO LE VOGLIE DELLA CARNE ED I DESIDERI CATTIVI; ED ERAVAMO PER NATURA MERITEVOLI DI IRA (Ef II,5).    

Questa condizione universale di colpa non è dovuta, secondo S. Paolo, ad una sola ragione. Come egli stesso ha sperimentato più volte, vi giocano una parte di primo piano la solidarietà nel male ed il coinvolgimento sociale. Esiste tanto lo scandalo dei deboli (1 Cor VIII,9-13; X,32; Rm XIV,13-21) quanto il contagio del peccato (1 Cor V,6; 2 Cor VI,14-18; Ef IV,14). Altre cause sono la potenza di satana (2 Cor IV,4; VI,14; Rm XI,8; Ef II,2; 1 Ts III,5; Gal I,8) e la forza della ‘carne’ opposta allo ‘spirito’ (Rm VII,15-25). Particolarmente importante, però, è lo speciale rapporto, che la peccaminosità universale possiede con l’’adam’ della Genesi.

Concludendo, le linee dottrinali più importanti proposte da Rm V,12-21 a riguardo della peccaminosità umana sono due:

1.- l’una, principale: tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, hanno bisogno della potenza salvifica di Cristo Redentore, che supera ampiamente la forza del male; dunque, tutti sono peccatori;

2.- l’altra, subordinata: in questa necessità universale di riscatto il peccato di Adamo esercita un influsso reale, che va molto oltre il cattivo esempio e che opera in e attraverso i peccati personali.

 

 

D.- INCAPACITÀ DELL’UOMO A CONSEGUIRE, DA SOLO, LA LIBERAZIONE-REDENZIONE

 

Si potrebbe aprire, a questo punto, il problema del male: Unde Malum? Si Deus bonus, et omnia bona fecit, unde malum? Un problema da affrontare prima o poi.

Allora, chi libererà l’uomo, che avverte in sé il desiderio della liberazione e della redenzione, ma intuisce che queste non possono venire da se stesso autonomamente?

Su questo punto s. Paolo è categorico: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti, non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (Rm. VII,15). Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato, che abita in me. Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nella mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente, e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. (Rm. VII,19-24). Non certo l’uomo stesso.

Allora, si potrebbe gridare con il salmo 121: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra”.

 

 

E.- L’esperienza della redenzione-salvezza-liberazione nell’A.T.

 

Il POPOLO EBRAICO più che avere il concetto di liberazione o quello relativo e consequenziale di salvezza, ha fatto esperienza di liberazione e di salvezza; e più che concettualizzare sul termine di ‘storia della salvezza’ ha piuttosto esperito e narrato come in realtà Dio abbia operato la salvezza per Israele, popolo scelto per l’alleanza, che non può vantare, così come tutti gli altri popoli, alcuna pretesa, alcun diritto alla salvezza. Anche il singolo israelita si riconosce gettato fin dalla nascita in uno stato di lontananza da Dio, come appare evidente da molti salmi. Nonostante la lontananza da Dio, che esiste nell’uomo già per il fatto stesso che è sua creatura, Dio si piega su di lui e ‘gli dona salvezza’.

Anche se concretamente per il popolo di Israele ‘salvezza’ e ‘liberazione’ significavano ‘terra promessa in cui scorre latte e miele’, cioè una prosperità di tipo materiale, tuttavia esso ha sperimentato che la salvezza gli proveniva da una ‘PERSONA’, da un ‘LIBERATORE’, che aveva tutta la prerogativa della Divinità.

L’A.T. sa e attesta espressamente che Dio, nell’accordare benedizione e salvezza, non è legato ad alcuna istituzione e ad alcun ordinamento vincolante preesistente. Semmai è stato Dio, che ha voluto progettare un ordinamento salvifico, al quale impegna se stesso e rimanda l’uomo, se questo vuole farsi partecipe della salvezza: questa struttura, questa istituzione è chiamata ‘alleanza’. E, perciò, Dio, con un atto gratuito, volitivo, libero e pieno di amore ha benedetto il primo uomo (Gen. I,28) e già dopo la caduta del peccato ha accennato alla vittoria sul male (Gen. III,15); ha preso Enoch (Gen. V,24), ha salvato Noè e la sua famiglia (Gen. VI-VIII) e ha scelto Abramo (Gen. XII,1 sg.) senza aver per questo costituito un ‘ordinamento salvifico’.

 L’iniziativa è gratuita ed è presa dal solo Dio, che intende liberare e salvare a tutti i costi il ‘suo’ popolo, talvolta anche contro la stessa volontà di quest’ultimo. Dio è il ‘go’el’ [‘riscattatore’, ‘redentore’] di Israele, suo figlio primogenito (Es. IV,22), che ha liberato sempre, ma in modo particolarissimo dalla schiavitù d’Egitto e dall’esilio di Babilonia (Is. XLI,14; XLIII,14).

Il tema di Dio Liberatore e Salvezza è la struttura portante di tutto il libro dei Salmi. E’ tale e tanta la coscienza di questa esperienza di liberazione ottenuta e da ottenere solo attraverso Jahwè che diventa fede e preghiera continua nel culto dell’intero popolo d’Israele e di ciascuno dei suoi membri.

Il popolo dell’A.T. ritiene che la salvezza e la liberazione da parte di Dio vengono effettuate attraverso ‘mediatori’ e che Dio si serva di interposte persone umane per far conoscere a Israele, partner dell’alleanza, la sua volontà e per comunicargli i beni salvifici promessi.  

Innanzitutto i CARISMATICI degli inizi (Mosè, Giosuè, i Giudici, Samuele) e i PROFETI.  Vengono, poi, i SACERDOTI. Seguono, poi, i RE. Per ultimo il MEDIATORE SOFFERENTE. Costui svolge un certo ruolo già dal più remoto tempo nel piano salvifico di Dio, secondo l’A.T. Muovendo dall’esilio Israele riconosce un ‘mediatore che espia in modo vicario attraverso la sofferenza. Il misterioso ‘servo’ dei cosiddetti canti dell’ebed-Jahwè (Is. XLII,1-7; XLIX,1-9; L,4-9; LII,13-LIII,12) incarna addirittura l’alleanza con Dio, per cui egli può essere detto ‘alleanza del popolo’ (Is. XLII,6). Egli aprirà gli occhi al suo popolo cieco e libererà i prigionieri (Is. XLII,7); egli restaurerà Israele disperso, sofferente sotto il giudizio (Is. XLIX,6). La sua missione, però, si estende oltre Israele: egli è luce per i pagani e procura salvezza fino ai confini della terra (Is. XLIX,6).

Così diventa per i ‘molti’ mediatore di alleanza e di salvezza, perché prende su di sé, in rappresentanza, attraverso la sua sofferenza, la loro colpa e le tribolazioni, che essi hanno meritate come castigo (Is. LIII,4.6.10 sg.). Questo ruolo di mediatore d’espiazione glielo ha imposto Jahwè (Is. LIII,10): dunque, la volontà salvifica di Dio lo ha donato ai peccatori. Coloro, a vantaggio dei quali va la sua opera espiatrice, riconoscono successivamente la sua missione, si confessano corresponsabili della sua sofferenza e, almeno ora, dichiarano la loro solidarietà con lui (Is. LIII,1-9).

 

 

F. - L’esperienza della redenzione-salvezza-liberazione nel N.T.

 

a.  - CRISTO LIBERA E SALVA L’UOMO CON LA REDENZIONE

La LIBERAZIONE e la SALVEZZA da parte di Dio sono venute all’uomo mediante GESU’ CRISTO. Esse sono GESU’ CRISTO INCARNATO e MORTO; esse sono il frutto della REDENZIONE operata dal Dio-fatto-uomo. L’opera della Redenzione, che è liberazione e salvezza, si è attuata con la morte di Cristo sulla Croce. E’ stato un gesto tanto grande da parte di Dio da non farlo tirare indietro neppure di fronte al sacrificio più misterioso, che si potesse compiere: consegnare il Figlio alla sofferenza e alla morte: Dio non ha risparmiato il suo Figlio, ma lo ha dato per tutti noi (Rm. VIII,32). E Dio ha voluto che la liberazione e la salvezza dell’uomo avvenisse con lo spargimento di sangue dell’Uomo-Dio: senza effusione di sangue non poteva esserci la salvezza.

La REDENZIONE, dunque, è avvenuta, tramite DIO FIGLIO FATTO CRISTO, che ha voluto morire ‘per noi’ (1 Tes. V,10) ‘empi’ e ‘peccatori’ (Rm. V,6-8), che ‘ha dato se stesso per me’ (Gal. II,20), che ‘ha dato se stesso per voi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore’ (Ef. V,29).

La REDENZIONE tramite sangue e morte di Cristo è stata progettata dal Padre come un disegno di salvezza liberatrice per l’uomo; la liberazione, per l’umanità schiavizzata dal peccato e dalle miserie, doveva compiersi per mezzo dell’immolazione del Figlio di Dio fatto uomo. Per questo ‘era necessario’ (Lc. XXIV,26) che Cristo patisse e morisse. Non si trattava, certo, di una fatalità o di un destino. Era la precisa volontà del Padre. Cristo lo sapeva e, pur sentendo, ‘fino a morirne’ (Mc. XIV,34), la tristezza e l’angoscia della sofferenza e della morte, ha accettato tale volontà: ‘Non ciò, che voglio io, ma ciò, che vuoi Tu’ (Mc. XIV,36).

La Redenzione, poi, non è soltanto voluta dal Padre, è voluta anche dal Figlio come obbedienza al Padre, che Gli aveva ‘comandato’ di offrire la sua vita per gli uomini (Gv. X,18); un’obbedienza espressa a parole: ‘Bisogna che il mondo sappia...che faccio quello, che il Padre mi ha comandato’ (Gv. XIV,31), e realizzata nei fatti, perché Cristo si è fatto ‘obbediente fino alla morte di croce’ (Fil. II,8).

Così Cristo è morto per salvare gli uomini: per ottenere ad essi il perdono dei peccati e la liberazione di tutto ciò che dei peccati ne è effetto e conseguenza. E’ stato Gesù stesso a porre la sua morte in rapporto con la salvezza degli uomini, affermando che il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per tutti (Mc. X,45; Mt. XX,28).

Anche s. Paolo pone la morte di Cristo in relazione con la salvezza degli uomini: Cristo è morto per i nostri peccati (1 Cor. XV,3), per noi (1 Tes. V,10). Così s. Giovanni: Egli ha dato la sua vita per noi (1 Gv. III,16). Così s. Pietro: Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio (1 Pt. III,18).

In conclusione: è affermazione centrale della fede cristiana che gli uomini sono stati salvati e liberati dal peccato e dalla morte eterna mediante la morte di Cristo. Questa è la REDENZIONE.

Come deve essere intesa questa parola? La morte di Cristo è una ‘redenzione’ [apolytrosis], cioè ‘una liberazione ottenuta mediante il pagamento d’un prezzo’. In altre parole Cristo ha liberato gli uomini dal peccato e dalla morte pagando, come prezzo [lytron], la sua morte. Ma come deve essere inteso il termine ‘prezzo’? Non certo come un prezzo pagato a Satana o a Dio per ottenere la liberazione degli uomini, che, con il peccato, erano diventati suoi schiavi, come in seguito intesero alcuni Padri della Chiesa, a cominciare da Origene. Infatti, nel N.T. non si parla di un ‘prezzo’ pagato a qualcuno: né a Dio, né, tanto meno, al diavolo. Il termine ‘lytron’ significa che la liberazione degli uomini è stata, per Cristo, ‘costosa’ e ‘onerosa’, nel senso che Egli ha ‘liberato’ l’uomo non con il sangue delle vittime, ma con il ‘proprio sangue’: Siete stati comprati a caro prezzo (1 Cor. VI,20), cioè non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, ma con il sangue prezioso di Cristo (1 Pt. I,18-19).

Dal concetto neotestamentario di ‘redenzione’ va, dunque, esclusa ogni idea di scambio o baratto mercantilistico, secondo la legge del ‘do ut des’, nel senso che Cristo avrebbe offerto al Padre il suo sangue come ‘prezzo’ per ottenere la ‘liberazione’ dell’uomo. Dio non è il mercante di schiavi, che non concede a costoro la libertà, se prima non gli sia stato pagato il ‘prezzo’ giusto; ma è il Padre, che libera gratuitamente gli uomini da ogni schiavitù e li libera per il solo motivo che li ama con amore misericordioso. Né Dio, né Cristo barattano l’uomo. Se di ‘prezzo’ si parla, se ne deve parlare nel senso che DIO ‘redime’ l’uomo pagando per essi un prezzo, che Gli costa infinitamente, poiché, per salvare gli uomini, egli consegna alla morte suo Figlio (cfr. Rm. VIII,32), e nel senso che CRISTO ‘redime’ gli uomini pagando per essi il prezzo della propria vita. Un costo terribile per Dio e per Cristo, che solo l’amore ha reso possibile pagare!

La ‘redenzione’, quindi, non è un fatto di giustizia commutativa, in cui il sangue di Cristo è scambiato con la salvezza degli uomini [come potrebbe suggerire il termine ‘redenzione’, che significa compera di qualche cosa mediante il pagamento di un prezzo], ma è un’opera di amore. Ciò che essa vuol mettere in risalto è l’’onerosità’ di questo amore.

Ma, oltre che ‘redenzione’, la morte di Cristo, è anche ‘espiazione’. Questo termine non significa che Cristo, morendo sulla croce, ha ‘espiato’ i peccati dell’uomo, placando l’ira di Dio, irritato per esso, ma significa che con il suo sangue Cristo, nella sua qualità di Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza, ha ‘purificato’ [questo è il senso di ‘espiare’] gli uomini dai loro peccati e li ha riconciliati con Dio.

La croce, perciò, non è il luogo, in cui Dio castiga il peccato - sottoponendo Cristo alla sofferenza e alla morte in espiazione dei peccati degli uomini -, ma è il luogo, in cui lo perdona. Non è il luogo dell’’ira’ di Dio, ma della sua bontà e della sua misericordia: e questa è la sua ‘giustizia’! La ‘giustizia’ di Dio, secondo s. Paolo, non è il rendere a ciascuno quello che merita o che gli è dovuto, ma è l’attività con cui Dio rende ‘giusti’ gli uomini, perdonando loro i peccati per pura misericordia. In altre parole: Dio mostra la ‘sua giustizia’ non punendo il peccatore o vendicando il peccato [quindi dando al peccatore quello che merita], ma ‘giustificando’, vale a dire ‘rendendo giusti’ i peccatori, togliendo da loro il peccato e comunicando ad essi la sua vita divina.

Perciò CRISTO CROCIFISSO non deve essere visto come colui, su quale si abbatte l’ira divina, vale a dire la giustizia punitiva e vendicativa di Dio. La Passione non è l’appagamento dell’ira divina, che si sfoga su Cristo. L’espressione paolina: Dio l’ha fatto peccato per noi (2 Cor. V,21) non deve essere interpretata nel senso che Cristo sia diventato egli stesso colpevole, perché egli resta ‘colui che non aveva conosciuto il peccato’ (2 Cor. V,21); essa significa solo che Egli, l’Innocente, il Santo, il Figlio, nel quale il Padre si è compiaciuto, ha preso su di sé le conseguenze del peccato [cioè la sofferenza e la morte], perché Dio, nella sua misericordia, aveva trasferito su di Lui i peccati di tutta l’umanità.

b.  - LA REDENZIONE E’ UN DONO DI AMORE DIVINO

A questo punto si pone una profonda domanda: ‘Perché, per salvare gli uomini, Cristo ha sofferto ed è morto, anzi ha ‘dovuto’ soffrire e morire? Non bastava, per salvare gli uomini, una sofferenza, che non giungesse alla morte, o la sola Incarnazione, o, addirittura, una semplice parola, proferita divinamente’?

Alla radice della morte di Cristo, c’è l’AMORE.

1.-Anzitutto l’amore del PADRE per gli uomini. Il Padre, nel suo amore misericordioso per l’umanità peccatrice, ha voluto che il suo Figlio Divino si incarnasse e morisse sulla croce per la salvezza dell’uomo. Cristo è il dono supremo del Padre, è l’espressione più alta e più perfetta dell’amore di Dio per l’uomo: Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito (Gv. III,16).

La REDENZIONE è totalmente gratuita e significa amore oblativo e donativo di Dio nei confronti dell’uomo. Dio, nella persona di Cristo, si è donato all’uomo nella forma più grande, perché non v’è maggiore amore di colui che dà la vita per la persona amata (Cfr. Gv. XV,13). La liberazione, dunque, è frutto supremo dell’amore del Padre per l’Uomo. Quest’amore consiste nel fatto che Egli stesso [il Padre] ci ha amati e ha inviato suo Figlio come vittima di propiziazione per i nostri peccati (1 Gv. IV,10).

Così, la morte di Cristo, da una parte, fa comprendere all’uomo la grandezza dell’amore che Dio, per pura misericordia, ha avuto per lui, nonostante indegno e infedele e, dall’altra, gli fa misurare la gravità del peccato, che, solo alla luce della morte di Cristo, si svela come ‘mysterium iniquitatis’. In realtà c’è nel peccato una sorta di infinità di malizia, che solo l’infinità dell’amore di Cristo per il Padre ha potuto esaurire e distruggere. Ma alla base della morte di Cristo non c’è solo l’amore del Padre, che gli ha dato il comando [entole] di ‘offrire’ la sua vita per gli uomini (Gv. X,17-18).

2.-C’è anche l’amore di Cristo per il Padre.

L’amore per il Padre ha spinto Cristo a darGli l’onore e l’amore, che gli uomini Gli avevano tolto e negato con i loro peccati. Perciò alla disobbedienza dell’uomo, Cristo ha opposto la sua obbedienza al Padre, spinta fino ad accettare la morte e la morte di croce; all’orgoglio dell’uomo, che ha preteso di essere come Dio, ha opposto il suo spogliamento [kenosis], che ha trovato la sua forma più dolorosa e umiliante nella crocifissione e nella morte. Certamente è stato l’uomo ad infliggere una tale morte a Cristo; ma dietro la malvagità degli uomini, c’è la volontà di Cristo, che, liberamente, va incontro, come un agnello, al sacrificio, conferendogli il significato e il senso di un gesto di amore e di obbedienza al Padre: ‘Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso’ (Gv. X,18). La morte è la sua ‘ora’, che viene quando vuole il Padre e quando egli stesso, Cristo, accetta di morire.

3.-E poi, alla radice della morte di Cristo, vi è l’amore per gli uomini. Un dono di amore nei confronti dell’uomo, un dono di amore tanto più grande, quanto più indegni di esso erano gli uomini: Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm. V,7-8). L’amore per gli uomini ha spinto Cristo a prendere su di sè i loro peccati, a sostituirsi ad essi e, quindi, a subire nella sua persona le conseguenze che il peccato si trascina dietro. Egli ha preso su di sé i peccati dell’uomo in tutta la loro gravità e malizia, in tutto il loro terribile peso. Ha dovuto, perciò, scendere nell’abisso del male e, così, prendere per mano chi vi era precipitato e tagliare alla radice la cattiva pianta del peccato. Per liberare l’uomo egli ha dovuto sperimentare nella sua carne e nel suo spirito il tradimento, la paura dei suoi, la violenza omicida dell’odio e della menzogna, l’indurimento del cuore umano. Per questo, nell’orto degli ulivi egli ha sperimentato un’angoscia mortale, che gli ha procurato la ematoidrosi (Lc. XXII,44). Per questo anche l’abbandono del Padre, percepito nella preghiera che Cristo eleva al cielo recitando il Salmo XXII, Dio mio, Dio mio, perché mi ha abbandonato? (Mc. XV,34), non è un grido di disperazione, perché la fiducia di Cristo nel Padre, a cui egli ‘rimette il suo spirito’ (Lc. XXIII,46), non è venuta mai meno; ma è il grido di una angoscia senza limiti, come se, per liberare gli uomini, Cristo avesse voluto sperimentare qualcosa dell’abbandono di Dio, che costituisce il tormento più terribile per i dannati.

Cristo, dunque, salva l’uomo e lo libera con il suo amore e la sua obbedienza. Ed è giusto che sia così: il primo uomo, Adamo, con il suo egoismo e la sua disubbidienza aveva tutti resi schiavi; Cristo, nuovo e secondo Adamo, con il suo amore e la sua ubbidienza rende tutti liberi e salvi: ‘Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così per l’ubbidienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti’ (Rm. V,19).

Certo, l’uomo può ancora assoggettarsi al potere del peccato; può ancora lasciarsi dominare dall’egoismo e dall’orgoglio; ma, se lo vuole, può liberarsene: fatto da Cristo ‘nuova creatura’ e sostenuto dallo Spirito, egli, aderendo, collaborando alla redenzione e completando, così, quello che manca alla passione di Cristo, come dice s. Paolo, passerà dall’egoismo alla carità e dall’orgoglio all’ubbidienza a Dio, e così sarà salvo, libero, e vincerà il male, il peccato, la sofferenza, la morte.

E così, anche se il male continua ad essere e ad apparire come un fiume in piena, anche se il ‘mysterium iniquitatis’ sembra travolgere ogni argine, ogni difesa e fare del mondo il regno dell’egoismo, dell’orgoglio, della crudeltà e della morte, la fede riafferma, a dispetto delle apparenze, che Cristo ha vinto il peccato e la morte, ha liberato il mondo dalla tirannia del male; cosicché, per quanto grande sia ancora il suo potere, esso non avrà l’ultima parola, ma va verso la sconfitta totale e definitiva. Cioè, se si compie nel mondo un ‘mysterium iniquitatis’, si compie anche, sia pure avvolto nel silenzio, che è l’atmosfera propria dell’opera di Dio, un ‘MYSTERIUM SALUTIS’. In tal modo, nella storia, convivono Mondo e Chiesa, ‘zizzania e grano’ (Mt. XIII,24 sg.), ‘pesci cattivi e buoni’ (Mt. XIII,47 sg.), si affrontano in una lotta senza quartiere e in un duello mirabile odio e amore, egoismo e carità, peccato e santità, morte e vita. La ‘città terrestre’, la ‘civitas diaboli’, per dirla con il De Civitate Dei di S. Agostino, convivrà con la ‘città celeste’, la ‘civitas Dei’, che alla fine, nell’’escaton’, avrà il suo compimento pieno e trionfalistico.

 

 

 

G. - La redenzione-salvezza-liberazione nella dottrina della Chiesa.

 

In proposito, per spazio e opportunità si prendono in considerazione solo due documenti:

 

1.      - il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Le linee maestre della dottrina cattolica sono: “tutti i peccatori furono autori della passione di Cristo” (n. 598); «Gesù consegnato secondo il disegno prestabilito di Dio» (n. 599); «Morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (n. 601); «Dio l'ha fatto peccato per noi» (602); Dio ha l'iniziativa dell'amore redentore universale (nn. 604-605); tutta la vita di Cristo è offerta al Padre (nn . 606- 607); «L'Agnello che toglie il peccato del mondo» (n. 608); Gesù liberamente fa suo l'amore redentore del Padre (n. 609); alla Cena Gesù ha anticipato l'offerta libera della sua vita (n. 610-611); l'agonia del Getsemani (n. 612); la morte di Cristo è il sacrificio unico e definitivo (n. 613-614); Gesù sostituisce la sua obbedienza alla nostra disobbedienza (n. 615); sulla croce, Gesù consuma il suo sacrificio (nn. 616-617).

2.      – la ‘Redemptor hominis’ di Giovanni Paolo II

a. - Dimensione divina del mistero della Redenzione (n. 9)

 “…non dimentichiamo, neanche per un momento, che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato la nostra riconciliazione presso il Padre. Proprio Lui, solo Lui ha soddisfatto all'eterno amore del Padre, a quella paternità che sin dal principio si è espressa nella creazione del mondo, nella donazione all'uomo di tutta la ricchezza del creato, nel farlo «poco meno degli angeli», in quanto creato «ad immagine ed a somiglianza di Dio»; e, egualmente, ha soddisfatto a quella paternità di Dio e a quell'amore, in un certo modo respinto dall'uomo con la rottura della prima Alleanza e di quelle posteriori che Dio «molte volte ha offerto agli uomini». La redenzione del mondo - questo tremendo mistero dell'amore, in cui la creazione viene rinnovata - è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia in un Cuore umano: nel Cuore del Figlio primogenito, perché essa possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall'eternità, predestinati a divenire figli di Dio e chiamati alla grazia, chiamati all'amore. La croce sul Calvario, per mezzo della quale Gesù Cristo - uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazareth - «lascia» questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell'eterna paternità di Dio, il quale in Lui si avvicina di nuovo all'umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo «Spirito di verità».

 

b.-  Dimensione umana del mistero della Redenzione (n. 10)

L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l'uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore», se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l'uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna».

 

 

H.- La redenzione-salvezza-liberazione nel Cavaliere dEl S. SEPOLCRO di Gerusalemme

 

Da quanto sopra è stato detto, non segue solo una viva e formalistica commozione per quanto viene contemplato nella Passione e Morte di Gesù (si riveda in Film di Mel Gibson, ‘La Passione di Cristo’), vi deve essere come naturale conseguenza quanto dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 618, allorquando parla della nostra partecipazione al sacrificio di Cristo: “La croce è l'unico sacrificio di Cristo, che è il solo mediatore tra Dio e gli uomini. Ma poiché, nella sua Persona divina incarnata, «si è unito in certo modo ad ogni uomo», egli offre «a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale».  Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo, poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari. Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice. «Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo».

S. Paolo, nella sua lettera ai cristiani di Efeso (1,24) dice: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.

Tutti gli uomini e tutte le donne di questo mondo sono invitati a partecipare alle sofferenze e alla redenzione del mondo per i propri peccati e per il bene della Chiesa universale. A maggior ragione coloro che, in qualche modo, sono più vicini a Cristo Sofferente e ne riproducono i segni della Passione nelle loro insegne, come i Cavalieri e le Dame del S. S. di Gerusalemme. Se oggi un Cavaliere entra nell’Ordine ha il sacrosanto ed unico dovere di esprimere così la sua vera fede in Cristo Signore, unigenito figlio di Dio e della Vergine Maria, morto e risorto per la Redenzione degli uomini, in intima unione con la Chiesa ed il Papa di Roma. Infatti il Cavaliere fonda la sua essenza sulla speranza della redenzione sua e dell’intera comunità universale, sulla carità e l’amore fraterno per il prossimo, a partire da quello più… prossimo fino a quello più lontano, passando attraverso la custodia prioritaria dei Luoghi Santi, da dove, solo per volontà e grazia di Dio Padre, è partita la Rivelazione e dove si è concretizzata la Redenzione.

Come esprimere e realizzare questa partecipazione alla passione e morte redentrice di Cristo, che, a dire di Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica (RH, n. 13) ha toccato: “«ciascun» uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero…ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa”?

E’ lo stesso papa che sempre nella sua Enciclica (RH, n. 20) indica la strada: “Nel mistero della Redenzione, cioè dell'opera salvifica operata da Gesù Cristo, la Chiesa … partecipa alla forza della sua azione redentrice, che Egli ha espresso e racchiuso in forma sacramentale, soprattutto nell'Eucaristia. Questo è il centro e il vertice di tutta la vita sacramentale, per mezzo della quale ogni cristiano riceve la forza salvifica della Redenzione, iniziando dal mistero del Battesimo, in cui siamo immersi nella morte di Cristo, per diventare partecipi della sua Risurrezione …In questo Sacramento, infatti, si rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del sacrificio, che Egli fece di se stesso al Padre sull'altare della Croce… L'Eucaristia e la Penitenza diventano così, in un certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente connessa dell'autentica vita secondo lo spirito del Vangelo… E’ necessario che in questo atto si pronunci l'individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto il senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a Lui, come il Salmista, per confessare: «Contro di te ho peccato». La Chiesa… difende il diritto particolare dell'anima umana. È il diritto ad un più personale incontro dell'uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»; «Va', e d'ora in poi non peccare più». Come è evidente, questo è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. È il diritto ad incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell'anima, che è quello della conversione e del perdono. La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la sua fede nel mistero della Redenzione… Il sacramento della Penitenza è il mezzo per saziare l'uomo con quella giustizia, che proviene dallo stesso Redentore”.

 

 

 


 

Fonte :  testo cortesemente inviato alla redazione dal Relatore dell'incontro spirituale il Confratello Comm. Mons. Prof. Vincenzo Taiani  OESSG.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

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