L’idea nacque attorno alla metà di febbraio del 2024: il desiderio di tornare in terra Santa indusse un piccolo gruppo della nostra luogotenenza a ipotizzare un breve pellegrinaggio di quattro giorni a Gerusalemme. L’idea incontrò l’incoraggiamento del Gran Maestro, in quando sembrava fosse giunto il momento opportuno per dare un segnale sulla possibilità di tornare, almeno nella città santa Gerusalemme gode di una sicurezza particolare per il pellegrino, in virtù del significato che riveste per tutte le religioni abramitiche. In cinque, quattro cavalieri e una dama, più mia moglie, individuammo il primo volo diretto da Napoli a tel Aviv dopo vari mesi, il 12 aprile. Uno dei cavalieri aveva ricevuto l’investitura a marzo. Non sembrò opportuno allargare le maglie dell’organizzazione. L’impossibilità di stipulare un’assicurazione di malattia e la necessità di essere disponibili anche a variazioni inattese richiamavano a particolare responsabilità. Il piccolo gruppo era anche percepito come più sicuro.
Scarse le formalità all’aeroporto di Tel Aviv; nel pomeriggio eravamo a Gerusalemme, nell’hotel Notre Dame. La città vecchia mostrò subito il quadro che ci attendevamo: pochi stranieri, i negozi di generi necessari alla vita quotidiana aperti, quelli di articoli religiosi quasi tutti chiusi. Raggiunta la Flagellazione praticammo con emozione, nelle strade solitarie, l’esercizio della Via Crucis, conclusa, con le ultime stazioni, nei luoghi stessi della Crocifissione e Sepoltura, all’interno della Basilica del Santo Sepolcro, cosa normalmente impossibile. Come sappiamo le folle obbligano a terminare la preghiera sul tetto degli Etiopi. Sostammo a lungo all’interno della Tomba, per portare al Signore le tante intenzioni di preghiera che ci erano state affidate e le nostre: in particolare quelle per la pace, per il nostro Ordine, per i nostri defunti.
L’indomani alle sei eravamo di nuovo lì, per partecipare alla Messa all’interno dell’Edicola, che era stata specificamente prenotata. Presiedeva l’amico Padre Sergio Galdi, Commissario generale di Terra Santa del Sud Italia, a Gerusalemme per ragioni d’ufficio. Era unito a noi anche un altro amico sacerdote, “Abuna” Francesco Piazzolla, che si trovava lì per insegnare Nuovo Testamento allo Studium Biblicum. Dopo poco più di un’ora fummo ricevuti dal Patriarca, col quale si parlò della situazione locale: dalle complesse strategie di aiuto e delle necessità. Appariva come sempre realista, e al tempo stesso animato dalla fiducia cristiana che si ravviva dalla prassi attiva. Era ancora speranzoso che le minacce incombenti (da giorni l’Iran annunciava ritorsioni) restassero tali. Lasciare peraltro la diocesi per venire in Italia, come previsto, per l’ingresso alla Basilica di cui ha il titulus era fonte gli creava scrupolo.
Dopo l’udienza partimmo per Betlemme. In tanti ci avevano stimolato ad andare: “anche vedervi darà speranza”. Il senso di abbandono era percepibile più che a Gerusalemme. Non ho mai visto tante persone mendicare e, nella Basilica della Natività, ci siamo ritrovati soli con i frati. Un noto negozio vicino alla piazza, gestito da una famiglia cristiana, era aperto: “siete i primi italiani che vediamo da ottobre”. Abbiamo acquistato tanti ricordi da portare in Italia, anche oltre il necessario. Lo “shopping solidale” è continuato alla “Casa dei Magi” la recente struttura della Custodia dove si può trovare tutto quanto viene prodotto dalle attività promosse in Cisgiordania, manufatti spesso di grande finezza.
Nel tardo pomeriggio eravamo a San Salvatore, per le ordinazioni diaconali presiedute dal Patriarca e per la seguente festicciola, durante la quale abbiamo potuto intrattenerci con il Padre Custode, anch’egli speranzoso che non fossero imminenti atti di guerra.
In serata, nel ristorante del Notre Dame, incontrai il “collega” luogotenente Michael La Civita, venuto da New York al seguito del Cardinale Dolan. Avevo incontrato il Cardinale al mattino, nella cappella dell’hotel.
Tre quarti dopo l’una ci svegliammo per le sirene d’allarme, quella del mio cellulare e quelle esterne. L’attacco missilistico iraniano era realtà. Lo stupore, considerate le aspettative ottimistiche ascoltate il giorno prima, superò in verità la preoccupazione, per la quale non ci fu quasi tempo. Le sirene tacquero quasi subito: il tempo di vedere il lampo e udire il rumore a raffica di un abbattimento, quello dell’immagine circolata anche in Italia, che solo per effetto prospettico appariva sopra la Spianata delle Moschee. In realtà il missile era a sud, verso la Hebron Road e diretto chissà dove a ovest. Dopo poco l’applicazione telefonica della difesa israeliana già dava il cessato allarme per Gerusalemme. Sceso nella hall incontrai nuovamente Michael La Civita; uscimmo all’esterno a sbirciare verso la città vecchia: tutto era già silenzioso, con l’eccezione del rumore, ricorrente e lontano, del volo dei caccia intercettori.
L’indomani mattina raggiungemmo la vetta del Monte degli Ulivi, all’edicola dell’Ascensione, e percorremmo tutta la discesa, sino al Getsemani e alla Tomba di Maria. Poco movimento, ma questo anche per la chiusura delle scuole. Pranzammo con due amici italiani: Carla Benelli che ormai è a Gerusalemme da decenni come storica dell’arte e Tommaso Saltini, direttore della ONG francescana in Italia, che era venuto per ragioni d’ufficio. Nel pomeriggio ricambiammo la visita a Claudette Habesch, dama dell’Ordine (una delle due di Gerusalemme) che era intervenuta alla nostra recente investitura; con noi i vescovi vicari patriarcali le loro Ecc.ze Mons. Shomali e Marcuzzo.
A sera un arrivederci al Santo Sepolcro: per la terza volta abbiamo potuto pregare, senza fretta, nella Tomba del Signore. Abbiamo poi atteso la famosa cerimonia di chiusura della porta. L’ora tarda ci costrinse a cenare nella città ovest, soluzione che non era nei nostri programmi perchè teoricamente meno sicura, ma la vita appariva normale: ci imbattemmo in tre feste di compleanno.
Arrivò subito la mattina del giorno di partenza: mentre gli altri visitavano una scuola, io e mia moglie incontrammo il direttore del St. Louis, un giovane collega arabo; il vecchio ospedale francese è ora un hospice per anziani, disabili gravi e malati terminali, appartenenti alle tre religioni e accuditi con l’aiuto delle suore di San Giuseppe. Poco mi ero recato al cimitero islamico di az-Zahra alla sepoltura del mio amico Osama Hamdan, architetto arabo ed esperto di fiducia della Custodia, uomo di pace, morto per un insidioso tumore due mesi prima, cui debbo molto di quanto ho imparato su “quella” terra.
Il volo di ritorno ci colpì per l’affollamento: famiglie e giovani israeliani diretti a visitare Napoli. La vita cerca sempre la sua normalità.
Fu un’esperienza forte, dolorosa per lo spettacolo di abbandono mostrato dai luoghi, per contro privilegiata per la concentrazione offerta dal silenzio dei luoghi santi. Fu la visita che si fa alla propria madre, o il ritorno di un navigante (io vengo da una terra dove ne abbiamo tanti) dalla donna amata.
Benedicamus Domino.
Giovanni Battista Rossi